Accedi oppure registrati

Marketing » Quando il commercio diventa ecoconsapevole

Quando il commercio diventa ecoconsapevole

14 February 2008
Photogallery

Tag e categorie

Il compito di tutelare il pianeta e la natura per le generazioni future è davvero gravoso e i ministeri, le agenzie ambientali e gli attivisti non possono occuparsene da soli.
Solo se ciascuno di noi, a partire dai singoli cittadini fino alle aziende piccole e grandi, si farà carico della propria parte di responsabilità, potremo affrontare le sfide che ci aspettano.
La conciliazione degli interessi economici e ambientali è un altro ambito che necessita di un maggior equilibrio. Vi è la percezione assai diffusa e totalmente errata che la natura possa essere tutelata solo a spese dello sviluppo economico.
L’ambiente non deve pagare il prezzo della nostra incessante ricerca di crescita economica, ma deve contrariamente costituire un’opportunità unica per assicurare che commercio e ambiente siano in grado di sostenersi reciprocamente ed efficacemente.
L'attività produttiva ha da sempre ricoperto un duplice ruolo: da una parte è fonte di sviluppo economico, dall'altra comporta un progressivo aumento dell'impatto sull'ambiente in quanto utilizza quest’ultimo sia come fonte di materie prime - acqua, energia, ecc. - sia come recettore degli scarti e delle scorie di produzione.
Nonostante la consapevolezza di tale legame indissolubile tra progresso economico e ambiente, gli esseri umani hanno dimostrato un’assoluta assenza di umiltà nei confronti della natura; infatti gli avanzamenti nel campo della conoscenza e della tecnologia spesso non sono stati accompagnati da un senso di responsabilità altrettanto forte e ciò ha ovviamente minato nei decenni il precario e delicato equilibrio esistente tra queste due forze, che devono imparare a coesistere per riuscire a sopravvivere.

Quali le conseguenze?


Secondo la previsione dell'Ipcc (l’organismo Onu che ha il compito di monitorare i cambiamenti climatici) la temperatura del pianeta s’innalzerà, in un secolo, di 2-2,5°C. Il riscaldamento globale provocherà, dunque, problemi legati alla perdita di biodiversità, alla desertificazione, all'innalzamento del livello dei mari e alla carenza di acqua potabile.
I climatologi prevedono, per esempio, entro il 2050, l'estinzione del 20-30% delle specie vegetali e animali del pianeta, lo scioglimento dei ghiacciai alpini e himalayani, città (come Venezia) o interi stati (come l'Olanda) sommersi dal mare, ma anche siccità e incendi che colpiranno le aree mediterranee. E l'aumento, in generale, di eventi climatici catastrofici.
Rassegnarsi? No. Una prima risposta fu data con il Protollo di Kyoto (vedere box in fondo), che ha avuto come principale merito quello di aver reso l’umanità cosciente del problema del cambiamento climatico (anche se non ha obbligato i singoli a cambiare le proprie abitudini). In breve, non si può più delegare: la responsabilità della situazione è di tutti. Sta a ciascuno di noi fare qualcosa.
Oggi, la sessione di Bruxelles ha evidenziato come siano necessarie, velocemente, delle politiche concrete, legate alle strategie di "adattamento" e "mitigazione" dei cambiamenti climatici, che superino il Protocollo di Kyoto.
L'Unione Europea, per esempio, sotto la guida del cancelliere tedesco Angela Merkel, si è posta l'importante obiettivo di raggiungere un accordo internazionale sul taglio del 30% delle emissioni inquinanti entro il 2020.
Inoltre recentemente c’è stato il Meeting di Bali (vedere box qui sotto). Da questo incontro è scaturito un documento finale che non fa alcuna menzione a limiti obbligatori sulle emissioni di gas serra (punto molto contrastato dagli Usa), ma contiene l'agenda e i principi che devono tracciare il cammino da qui al 2009, quando sarà firmato un nuovo Protocollo di Kyoto, più ambizioso di quello attuale. Del resto la Conferenza sponsorizzata dall'Onu non aveva l'obiettivo di fissare misure stringenti, ma doveva definire obiettivi e tappe per i prossimi negoziati. Il Kyoto 2, che sarà negoziato nei prossimi due anni, sarà firmato a Copenaghen nel 2009 e avrà effetto a partire dalla fine del 2012. I tre blocchi opposti - Usa, Ue e le nazioni in via di sviluppo guidate da Cina e India - hanno alla fine attenuato le differenze per concentrarsi su alcune questioni chiave. Si sono accordati per attivare un fondo di adattamento per aiutare i Paesi più poveri, come le isole del Pacifico, che stanno già patendo gli effetti del surriscaldamento; hanno deciso di dare appoggio tecnologico e finanziario ai Paesi in via di sviluppo, in modo da aiutarli a ridurre le emissioni di gas responsabili dall'effetto serra; hanno riconosciuto indennizzi ai Paesi poveri perché tutelino il proprio patrimonio boschivo.

E l’Italia?


Su questo fronte i nostri politici dovrebbero impegnarsi decisamente di più. La stessa Comunità Europea ci ha additato l’anno scorso come il Paese più “deludente per quanto riguarda la promozione e la diffusione di energia elettrica alternativa, cioè prodotta da fonti rinnovabili (solare, eolico, ecc.)”. La Direttiva 2001/77/CE ha stabilito che la produzione di elettricità in Europa dovrà essere realizzata per il 21% attraverso fonti rinnovabili entro il 2010, con percentuali diverse per ogni Paese: l’Italia ha un contributo del 25% ma ad oggi siamo fermi al 16% e continuando così sarà difficile rispettare questo traguardo (gli esperti ci dicono che andando avanti così arriveremo al 19% nel il 2010). Inoltre ci sono altri fronti sui quali il nostro Paese dovrebbe lavorare molto: per esempio la riduzione dei consumi di acqua visto che con circa 200 litri al giorno pro capite superiamo la media europea (con delle perdite nella rete idrica che raggiungono il 30% dei consumi) e del parco macchine (con 34 milioni di vetture siamo ai primi posti nelle classifiche mondiali).
Comunque l’Italia, pur con vari ritardi rispetto agli impegni presi nel Protocollo di Kyoto, può annoverare numerosi esempi positivi nell’imprenditoria nazionale. L’azienda italiana, infatti, è stata capace in molti casi di trasformare la propria sensibilità verso l’ambiente in un punto di forza del proprio business. Tale fenomeno ovviamente è possibile vederlo realizzato in diversi settori. Sicuramente, come spesso succede, la grande distribuzione è arrivata per prima: basti pensare a tutti i prodotti freschi, frutta e verdura, etichettati con la dicitura “provenienti da agricoltura biologica". Ricordiamo a questo proposito che agricoltura e allevamenti biologici sono sottoposti a un rigoroso sistema di controllo, uniformato sull’intero territorio dell’Unione Europea ai sensi del Reg. CE 2092/91 e successive modifiche, che monitorizza l’intero ciclo del prodotto, dalla preparazione del terreno per la semina fino alla vendita. Le aziende biologiche, vengono ispezionate (anche a sorpresa) in tutti i loro ambiti , terreni, stalle magazzini, carico e scarico dei prodotti, ecc.
Non mancano iniziative in altri settori.
Per esempio il Progetto EcoWorldHotel, primo gruppo di alberghi e bed & breakfast ad adottare una filosofia ecosostenibile, finalizzata a incoraggiare e sostenere le singole strutture ricettive a impegnarsi concretamente per l’ambiente, riducendo l’impatto sul territorio delle attività correlate alla loro gestione.
Sono poi numerose anche le imprese che mettono in atto tutte le strategie possibili per ridurre gli impatti che gli imballaggi esercitano sull'ambiente quando diventano rifiuti, come richiesto sia dalle normative europee (la Direttiva Imballaggi 94/62/CE e successive modifiche, che prevede soprattutto una riduzione quantitativa del peso e del volume degli imballaggi stessi), sia dalle leggi nazionali (con il d.lgs. 152 del 3 aprile 2006, relativo alla prevenzione e alla gestione degli imballaggi).
A questo proposito, il Consorzio per il Recupero degli Imballaggi (Conai) ha presentato in un dossier una decina di strumenti per ottenere imballaggi più ecoefficienti:

  1. riduzione quantitativa, ovvero riduzione in peso e volume del materiale impiegato per produrre gli imballaggi;

  2. riutilizzo dell'imballaggio, specialmente a livello locale;

  3. riciclo, cioè raccolta dei rifiuti di imballaggio per avere materia seconda da reimmettere nei cicli di produzione;

  4. razionalizzazione dei trasporti, in modo da emettere meno CO2 possibile;

  5. rendere ecoefficiente il processo di fabbricazione;

  6. rendere ecoefficiente la filiera di raccolta, selezione, recupero e riciclo degli imballaggi buttati;

  7. razionalizzazione della filiera di produzione, trasporto e distribuzione dell'imballaggio, con un'integrazione tra settore primario, secondario e terziario;

  8. risparmio energetico, ossia ridurre le emissioni in atmosfera utilizzando, per la fabbricazione degli imballaggi, o meno energia (quindi razionalizzandone l'utilizzo) o sfruttando fonti energetiche alternative;

  9. innovazione tecnologica, ovvero promuovere lo sviluppo di imballaggi ecoefficienti;

  10. favorire l'efficienza della differenziazione dei rifiuti (tra umido e imballaggi).


Sul nostro territorio ci sono anche molte aziende che hanno come core business “vivere con la natura” e che hanno adottato soluzioni ecosostenibili nelle diverse funzioni aziendali (logistica, acquisti, produzione, marketing e così via), ma la strada per diventare ecosostenibile in alcuni casi è ancora molto lunga.

Alcuni esempi positivi


Le iniziative prese da molte aziende in tema di “impatto zero” iniziano a essere molte e di varia natura.
Nella scorsa estate Indesit (elettrodomestici) ha importato negli Stati Uniti la moda del “venerdì casual”: giacche e cravatte in ufficio vengono sostituite dalle tshirt per limitare l’uso dei condizionatori. Ricoh (elettronica per l’ufficio) investe ogni anno 1,3 milioni di euro per promuovere progetti a sostegno dell’ambiente e recupera e ricicla il 50% dei prodotti che immette sul mercato. Whirpool Europe ha proposto lavatrici a impatto ridotto con purificazione delle acque grigie residue. Henkel dal 2002 al 2006 ha ridotto del 30% i rifiuti non riutilizzabili e del 27% i consumi di energia.
Ma troviamo esempi positivi anche nel mercato del brico-garden a testimonianza del fatto che il trend “impatto zero” si sta facendo largo anche nel nostro settore.
Un esempio è Legnolandia, azienda situata in mezzo ai boschi nel Parco Naturale delle Dolomiti Friulane in uno degli ambienti naturali più belli delle Alpi. Lavorano il legno da molte generazioni e hanno un rapporto speciale con l’ambiente che li circonda. Per questo i loro prodotti e il loro stesso modo di “essere azienda” sono sempre in assoluta armonia con la natura sia per scelta sia per le normative che regolano il Parco Naturale. Legnolandia utilizza quindi un’innovativa centrale automatizzata a biomassa, alimentata con gli scarti di lavorazione e con la pulizia del bosco, per produrre l’energia necessaria per il funzionamento degli impianti e l’energia elettrica. L’energia termica prodotta è di 540.000 Kcal-ora e sarebbe sufficiente a riscaldare 50/60 appartamenti. Inoltre Legnolandia si è dotata anche di un impianto fotovoltaico di nuova generazione e per costruire suoi prodotti utilizza esclusivamente legno proveniente da boschi a forestazione controllata e marchiato Fsc.
L’attenzione all’utilizzo di legname certificato Fsc e Pefc è spiccata anche in aziende come Pircher Oberland, Alce e Holzhof, che indicano espressamente nelle loro comunicazioni l’attenzione all’utilizzo di legname prodotto secondo criteri di gestione forestale ecosostenibile. La stessa attenzione dimostrata da Gardena, che utilizza legno Fsc per i manici in legno dei suoi attrezzi.
Anche Vigorplant, azienda che produce terricci per l’ortoflorovivaismo, ha come principale obiettivo l’ecosostenibilità e sono numerose le iniziative che ha messo in atto e che si accinge a varare nel corso del 2008: ha varato un piano di logistica cointegrata (che privilegia l’uso delle rotaie sia per distribuire i prodotti sia per l’importazione delle materie prime), privilegia i fornitori che a loro volta hanno adottato politiche sensibili alle problematiche ambientali; collabora con TetraPak per la realizzazione dei pannelli utilizzati per la promozione che sono in materiale cartolattico proveniente dal riciclo degli imballaggi; infine annualmente impegna a svolgere un test di autovalutazione per verificare la propria autosostenibilità.
Possiamo citare anche Emak, produttore nazionale di macchine per il verde, che ha adottato quest’anno il brand We care che sottolinea l’impegno dell’azienda emiliana nell’ecosostenibilità e il marchio Burn Right che garantisce una riduzione del 75% delle emissioni nocive e il 30% nei consumi di carburante, grazie ad alcune soluzioni tecniche adottate nella produzione delle sue macchine.

Il retail non sta a guardare


Come abbiamo detto all’inizio del servizio, nell’era della grande distribuzione anche il commercio può (ma dovremmo dire “deve”) svolgere un ruolo fondamentale in questo processo di educazione del consumatore. Anzi la scelta di connotarsi come “punti vendita eco consapevoli” rappresenta un elemento di differenziazione che potrebbe portare enormi benefici alle insegne che per prime “cavalcano” questo trend.
Benché una conversione totale sia in questo momento impossibile, specialmente nel nostro mercato, alcune strade possono già essere percorse. Anzitutto è possibile introdurre negli assortimenti i prodotti ecosostenibili (pannelli solari, batterie ricaricabili, lampadine a basso consumo, riduttori di flusso per i rubinetti, ecc.) supportandoli con la necessaria comunicazione, volta a indottrinare e formare il consumatore finale. In secondo luogo, privilegiando le industrie che adottano politiche a tutela dell’ambiente: per esempio quelle che utilizzano energia proveniente da fonti rinnovabili per la produzione o che privilegiano l’uso di materie prime riciclabili per la realizzazione dei loro prodotti. In ultima analisi il trade potrebbe puntare su un’immagine ecosostenibile dando semplicemente il buon esempio: utilizzando energia proveniente da fonti rinnovabili per l’illuminazione e la climatizzazione del punto vendita, privilegiando shopper riciclabili, usando soltanto pallet marchiati Fsc, ecc.
Alcuni esempi positivi non mancano. Partendo dalla GDO possiamo ricordare i progetti Riduci Imballaggi ed Ecologos che si pongono l’obiettivo di ridurre il consumo di imballaggi attraverso la promozione di prodotti sfusi e al quale hanno già aderito Ipercoop, Auchan e Crai.
Proprio Crai già da anni ha sviluppato il progetto Eco Point la spesa senza sprechi che prevede l’impiego di dispenser per ridurre l’uso degli imballaggi anche nel settore alimentare. Oggi Crai vende sfusi spezie, pasta, frutta secca, riso e sta sperimentando il vino e il latte. Un progetto che ha portato alla riduzione di 50.000 confezioni all’anno per ogni punto vendita e un risparmio dal 20% al 70% a favore dei clienti.
Ma anche nel mercato brico/garden non mancano esperienze positive. Citiamo anzitutto Obi Italia che ha proposto per prima i pannelli solari nei suoi punti vendita e che promuove costantemente campagne incentrate sull’ecosostenibilità: come il progetto sviluppato con Legambiente per la promozione delle lampadine ecologiche e il progetto Sempreverde, semprevivo sviluppato in collaborazione con l’Associazione ambientalista Amici della Terra. Quest’ultimo progetto prevede la messa a dimora degli alberi di Natale: in due anni Obi ha raccolto oltre 7.000 abeti che sono stati piantumati in diverse oasi verdi italiane.
Altri esempi positivi arrivano dalle insegne specializzate nel giardinaggio, come i garden center Viridea e Botanic.
I francesi di Botanic in occasione dell’inaugurazione del nuovo punto vendita di Rozzano (in provincia di Milano) nello scorso ottobre hanno lanciato il marchio EcoGiardinaggio che contraddistingue i prodotti ecocompatibili e bio proposti nei punti vendita Botanic.
I garden center Viridea sono a bassissimo impatto ambientale e sono realizzati con criteri costruttivi legati ai principi della bioarchitettura. Inoltre Viridea utilizza soltanto shopper ecologici: quelli in carta sono realizzati in Cartafrutta, la speciale carta prodotta dal riciclo della cellulosa dei cartoni TetraPak, e quelli in plastica in Mater-Bi, il materiale bioplastico sviluppato da Novamont.

Un ultimo auspicio


Come osservazione finale rileviamo che la politica comunitaria italiana in questo settore si è limitata, fino ad oggi, a perseguire esclusivamente miglioramenti specifici su singoli aspetti: da un lato la produzione di apparecchiature efficienti sotto il profilo energetico mediante la fissazione di requisiti minimi di rendimento per alcuni prodotti, dall’altro la sensibilizzazione dei consumatori mediante l’introduzione di opportune prescrizioni in materia di etichettatura.
Rispetto a tale impostazione, gli obiettivi che l’Italia si è proposta sono particolarmente ambiziosi. Per questa ragione diventa assolutamente necessaria una normativa che preveda un approccio integrato: in effetti, l’obiettivo principale della direttiva doveva essere quello di trattare in maniera organica e completa tutti gli aspetti e gli impatti ambientali dei prodotti e delle relative attività produttive. In altre parole per ottenere a livello globale risultati concreti, non è sufficiente, se pur fondamentale, la buona volontà di ciascuno di noi, ma è assolutamente necessaria la presenza di normative capaci di regolare e guidare tutte le filiere.

Cos’è il protocollo di Kyoto?
È un accordo internazionale - entrato in vigore il 16 Febbraio 2005 -, firmato nell’ambito della “Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici” del 1997, che prevedeva la riduzione complessiva del 5,2% dell’emissione di gas serra (CO2 in atmosfera) rispetto al 1990 (anno di riferimento).
Per i Paesi membri dell’Unione europea nel loro insieme la riduzione dovrà essere pari all’8%, e dovrà avvenire nel periodo 2008/2012.
Con l’entrata in vigore del Protocollo, gli Stati firmatari hanno dovuto adeguarsi. Lo Stato, a questo punto, ha dovuto impegnarsi a rispettare gli accordi presi al momento della ratifica del Protocollo. L’Italia, per esempio, doveva riuscire a ridurre le proprie emissioni del 6,5% rispetto al 1990. Avrebbe potuto farlo solo attraverso un’adeguata politica energetica (energie rinnovabili) che coinvolga diversi settori, primo fra tutti quello industriale.
Le aziende che sono state obbligate ad adeguarsi sono quindi le industrie che producono maggiori emissioni inquinanti: centrali produttrici di corrente elettrica, raffinerie, acciaierie, cartiere. Mentre per le altre aziende l’adeguamento è volontario.
In concreto, le aziende avevano due possibilità: la prima è quella di ridurre le proprie emissioni di CO2 spontaneamente, migliorando l’efficienza dei propri impianti (sfruttare le fonti di energia rinnovabili anziché quelle fossili è una delle possibilità).
La seconda strada è quella dell’acquisto di quote di emissione: ogni azienda ha un tetto di emissioni da rispettare. Si possono comprare quote di emissione da aziende più efficienti, andando così “in pari”.


Il Meeting di Bali
Iniziato il 3 dicembre 2007 e terminato il 14, il Meeting di Bali in Indonesia è stato essenzialmente una conferenza dell'Onu dedicata al cambiamento climatico. Si tratta di uno dei più importanti meeting internazionali riguardanti il riscaldamento del pianeta. A discutere di prospettive e soluzioni c’erano i rappresentanti di 180 Paesi, osservatori governativi.
L'Ue, i cui Paesi hanno fatto notevoli passi in avanti nel taglio delle emissioni nocive, spingeva per un accordo che chiedesse alle nazioni in via di sviluppo di tagliare le emissioni tra il 25 e il 40% nel 2020 rispetto ai livelli del 1990: obiettivi a cui si sono sempre opposti gli Stati Uniti, ma anche il Giappone e il Canada.
Rispetto all’Europa, la situazione degli Stati Uniti è molto diversa: c'è un enorme parco automobili e le industrie petrolifere sono potenti e influenti. Dopo che il presidente Clinton firmò il Protocollo di Kyoto nel 1997, i repubblicani al Congresso e il presidente Bush hanno fatto marcia indietro nel 2001. Le differenze tra Usa e Ue sono complicate dalla presenza di un altro importante gruppo: i Paesi più poveri e quelli in via di sviluppo. Lo sviluppo industriale di India e Cina, per esempio, sta trasformando il sud est asiatico nell’area a maggiore produzione di gas serra.